martedì 17 maggio 2011

RUMORI SOSPETTI


Circa tre anni fa, mia madre mi portò dal dentista per la prima volta; devo dire che fu un’esperienza piuttosto strana. All’epoca era tutto diverso, io avevo sei anni, e non essendomi ancora addentrato nel mondo della lettura avevo una percezione distorta della realtà. Oggi ne ho quasi nove, frequento la prima superiore da un insegnante privato, e ho già pubblicato numerosi racconti. La mia mamma a volte ha lo sguardo triste, probabilmente preferirebbe un figlio normale, e non un “mostro”, come mi chiamano in molti, ma io non mi offendo, perché so che l’etimologia latina di mostro è monstrum, termine che non ha alcuna denotazione negativa, mi spiace solo per la mamma, lei ci sta male perché non lo sa. 

L’ingresso

Entrare nell’edificio non fu così difficile, almeno per chi come me , ignorava il seguito: sudore, gambe che tremano e pianti sono cose da veterani.
Una volta varcata la soglia una signora con la voce strana fece gli onori di casa invitandoci ad attendere nella sala d’aspetto, forse il momento più difficile della visita dentistica.

L’attesa

La sala d’attesa è un luogo infido e snervante. Di primo impatto è accogliente, con le sue poltroncine ben ordinate lungo il perimetro, qui e lì riviste sparse e vasi colmi di fiori colorati. Le sedie sono comode, ma sempre troppo alte per poter tamburellare i piedi sul pavimento, e i giornali hanno delle figure poco interessanti, non c’era un orco o un lupo a pagarlo oro. Per mia fortuna non sapevo leggere, oggi giorno, ogni qualvolta sono costretto ad aspettare in quelle salette della tortura, rimango inorridito nel leggere tutte quelle sciocchezze mal scritte e mal pensate.
-Qui bisogna stare zitti-zitti e fermi- lo dice sempre mia madre.
Quella volta lo diceva anche la signora accanto alla porta, che seduta a gambe serrate sembrava una bambola con i capelli bianchi; lo diceva anche il bianco abbagliante dei muri e lo diceva anche il ronzio dei neon appesi al soffitto e perfino il tic-tac dell’orologio reclamava il silenzio ad ogni movimento di lancetta.
Fatto sta che quella stanza dovrebbe essere fatta apposta per aspettare, ma come potevo riuscirci stando seduto su una sedia? Si può aspettare giocando, o disegnando, oggi quando aspetto che il papà torni dal lavoro leggo, un anno fa disegnavo, ma nella sala d’attesa del dentista non ci riuscivo proprio.
Mentre valutavo se avevo o meno fatto pipì prima di uscire si casa, arrivò il turno della signora accanto alla porta: imboccò il corridoio e scomparve dietro l’angolo.
Guardavo le mie gambe dondolare nel vuoto, sempre più veloci, sempre più in alto, ma proprio quando stavo per prendere il volo, un suono terrificante mi raggelò il sangue.
Era incredibilmente acuto, lì per lì lo ricollegai subito al rumore del trapano che il papà usa per appendere le mensole in cucina; quando lo usava io lo spiavo sempre da dietro la porta perché mi faceva davvero paura. Molti lo troveranno irrazionale, ma è proprio questo il bello di noi bambini, no?
Ora so bene di che suono si trattava, mi capita di leggere riviste specializzate a riguardo, ma quella volta pensai che forse il dentista stava appendendo un quadro, o magari aveva bisogno di un’altra mensola per farci sedere la signora appena entrata. Avevo il sentore però che quel suono non promettesse nulla di buono.
Ripresi a considerare l’ipotesi di non aver fatto pipì, e intanto canticchiavo per riuscire a rispettare le regole della sala d’attesa: attendere.
Lo studio ripiombò nel silenzio, e dopo poco la signora risbucò dal corridoio, mi sorrise con la bocca un po’storta e salutò la mamma con la voce impastata: toccava a noi.

La visita

Percorremmo a nostra volta il lunghissimo corridoio dalle luci alte, dietro l’angolo un’altra porta, anch’essa aperta.
Lo studio del mio dentista è molto grande, la luce che si intrufola dalla finestra rimbalza qui e lì all’impazzata tra piattini di metallo e vetrinette porta medicinali.
Di mensole e quadri nessuna traccia.
Al centro della stanza c’è la sdraio intergalattica,(mi piace ancora chiamarla così): è una sedia dove da seduti si potrebbero rimirar le stelle -direbbe il Poeta-, se solo non ci fosse il soffitto.
Questa postazione di comando interspaziale ha di fronte a sé una serie di bottoni e strumenti, come ad esempio, uno strano uncino, che mi saltò all’occhio fin dal primo momento.
Quel giorno ero io il comandante, e come divisa portavo un bavaglino legato intorno al collo.
Poi entrò il Capitan Dentista: lui è altissimo, più della mamma, ed è sempre vestito come tutti i dottori che si rispettino: camice, zoccoli e guanti.
Come si sedette accanto a me indossò una mascherina e mi sollevò da terra pigiando uno dei bottoni: se non mi avesse ordinato di aprire la bocca avrei potuto raccontare agli amici di essere stato su una navicella spaziale.
Mentre studiava con grande interesse la mia bocca consideravo che i miei denti erano ben piccoli in confronto ai suoi, e pochi, visto che quelli davanti mi avevano abbandonato di recente: tradito per un panino! (Con grande orrore dei miei compagni che videro uscire dalla bocca la merenda ancora intatta, ma con i miei due incisivi infilzati e sanguinanti).
Poi con un movimento lesto prese l’uncino dalla postazione di comando, e brandendolo si avvicinò al mio viso già terrorizzato.
Nossignore! Nessuno mi avrebbe infilzato la lingua, men che meno quell’estate: mi serviva per mangiare i gelati e fare le linguacce a mia sorella.
Bocca serrata, pugni chiusi e denti, pochi, ma ben stretti. Inutile raccontare le successive vicissitudini: il medico, ostinato, cercò in tutti i modi di farmi cambiare idea, tentando perfino di tapparmi il naso; ma quell’uncino mi spaventava davvero troppo. Più si avvicinava, più stringevo i denti e più i miei occhi si facevano grandi e pieni di lagrime, ma non aprii la bocca, neanche per piangere.
La mamma dal canto suo, dopo un po’ non era più scocciata, si era piuttosto rassegnata a contrattare.
Un gelato.
La mia lingua per un gelato? E poi come avrei potuto mangiarlo se quel impudente carnefice me l’avesse tranciata?
Un gelato ed un paio di pattini.
Per un paio di pattini non solo avrei aperto la bocca, ma mi sarei conficcato l’uncino io stesso. Per fortuna mi limitai ad eseguire solo la prima parte.
Il dentista tastò qui e lì: molari, canini, incisivi… Ovviamente non si interessò minimamente della lingua che tanto mi era cara.
Poi si levò la mascherina, e mi riportò a terra premendo un altro bottone: stavo bene e avevo un paio di pattini nuovi.
La mamma mi stringeva la mano mentre ci dirigevamo dal giocattolaio
“Non è male andare dal dentista sai? Ma non ho capito cosa se ne fa del trapano se non ha né quadri e neanche scaffali”

Non giocai a lungo con quei pattini, di lì a poco decisi di smontarli per capirne il funzionamento e finita l’estate andai a scuola. Imparai a leggere e cambiò tutto, ma questa storia preferisco lasciarla raccontare ai giornali, ad ognuno il suo mestiere.

1 commento:

  1. Troppo bella! e troppo vera! Per non parlare di quella volta che non volevi aprire la bocca, poi, miracolo, non so come ti decidesti e il dentista potè farti finalmente l'anestesia e.....finì così: la bocca tornò a chiudersi ermeticamente!
    Lezione di matematica: i tuoi occhi erano inversamente proporzionali alla tua bocca, più si chiudeva questa, più si spalancavano quelli!!!!

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